Da pochi giorni si è celebrato il 25 aprile. Come ogni anno, ci sono state celebrazioni, ricordi, memoriali. Ma non tutto quel che accadde in quei giorni viene ricordato, anzi su una gran parte di ciò che avvenne allora fu calato negli anni il silenzio più totale.
Un esempio? Accadde oggi, l’oggi di 78 anni fa.
Era il 30 aprile 1945 quando Luisa Ferida venne fucilata, a 31 anni, in stato di gravidanza avanzato, insieme con il convivente, Osvaldo Valenti. Furono trucidati a Milano, in via Poliziano, Ippodromo di San Siro, senza prove, senza processo, senza appello, dai partigiani. L’accusa: la partecipazione ai crimini di guerra e alle torture della cosiddetta “banda Koch”.
Luisa Manfrini Farnet, in arte Ferida, era nata a Castel San Pietro Terme, in provincia di Bologna, nel 1914 e fu una delle più note attrici del cinema italiano nel periodo del Fascismo. Incontrò il collega Osvaldo Valenti sul set del film diretto da Alessandro Blasetti, Un’avventura di Salvator Rosa, nel 1939, che fu il periodo di maggior successo della sua carriera: tra i due sbocciò una relazione che li avrebbe legati profondamente fino alla fine. Nei suoi ultimi anni di vita, la Ferida venne sempre più apprezzata come attrice dalla grande sensibilità interpretativa e dalla notevole maturità espressiva.
Osvaldo Valenti nacque a Costantinopoli nel 1906, da padre messinese e madre greco cipriota. Anche lui attore, acquistò notorietà in seguito all’incontro con il regista Blasetti. Furono tre grandi successi: Un’avventura di Salvator Rosa (1939), in cui recitò per la prima volta con Luisa Ferida, La corona di ferro (1941) e La cena delle beffe (1942).
Nell’estate del 1943, avvenne il crollo del regime fascista e i bombardamenti aerei degli Alleati sulla città di Roma, mentre l’attività cinematografica nazionale subiva un durissimo contraccolpo. Quando fu costituita la Repubblica di Salò, Valenti insieme alla Ferida si trasferì a Venezia, dove riprese l’attività cinematografica insieme alla compagna di lavoro oltre che di vita.
Nel 1944, la coppia Valenti Ferida si spostò a Milano, dopo che Osvaldo Valenti era entrato col grado di tenente nella Xª Flottiglia MAS. Allora, arruolarsi nella Decima MAS era “simbolo di dignità e onore”. Infatti aveva scritto ad un amico: «Non voglio più sentir parlare di arte e di cinema, e non mi voglio più recare nella Spagna dove pur ho un contratto vantaggiosissimo. Io sento che il mio dovere sarebbe di fare qualcosa di positivo per questo pezzo di terra che ancora ci rimane» (Luigi Cazzadori, Osvaldo Valenti-Luisa Ferida, Novantico Editore, 1998, p. 40).
Valenti, per arruolarsi, rifiutò anche l’incarico di Commissario Nazionale per lo spettacolo offertogli dal ministro della cultura popolare Ferdinando Mezzasoma. Divenne anche, a Milano, ufficiale di collegamento con il Comando della Kriegsmarine in Italia, riscuotendone l’apprezzamento (Luigi Cazzadori, Osvaldo Valenti-Luisa Ferida, Novantico Editore, 1998, p. 45).
Osvaldo Valenti insieme a Luisa Ferida
Come ufficiale di collegamento della Decima MAS, Valenti ebbe contatti con la famigerata banda di Pietro Koch, ma in tali rapporti rimase del tutto estranea la Ferida, ricoverata in ospedale dopo incidente automobilistico, proprio in quel periodo. Inoltre, come confermato da molte testimonianze, la frequentazione di “Villa Triste” da parte della Ferida, e la sua presunta complicità con i torturatori di partigiani, si dimostrarono solo calunnie prive di fondamento.
Tanto che la madre della Ferida, Lucia Pasini, nell’ottobre 1956 ottenne che le autorità italiane scrivessero nero su bianco che la sua unica figlia era stata trucidata senza alcuna colpa.
Infatti, fece domanda al Ministero del Tesoro per ottenere una pensione di guerra, poiché la figlia era anche la sua unica fonte di sostentamento.
Pertanto si rese necessaria un’accurata inchiesta da parte dei Carabinieri di Milano per accertare le reali responsabilità della Ferida, al termine della quale si concluse che «la signora Manfrini Luisa, in arte Luisa Ferida, non consta abbia fatto parte di formazioni militari ausiliarie della Repubblica sociale italiana».
«La Manfrini dopo l’8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano».
La madre di Luisa Ferida ottenne così non solo che venisse alla luce la verità sul massacro della figlia ma anche la pensione di guerra comprensiva di arretrati.
I partigiani che fucilarono Luisa e Osvaldo in quel giorno di fine aprile a Milano, erano appartenenti alla divisione “Pasubio”, al comando di Giuseppe Marozin, che rispondeva al nome di battaglia di “Vero”.
Essi celebrarono un processo sommario, con un verdetto già scritto.
Giuseppe Marozin, detto Vero, aveva preso parte alla guerra civile spagnola dalla parte dei franchisti. Nel periodo tra febbraio e novembre 1944 fu comandante della divisione Pasubio operante tra Verona e Vicenza nelle valli del Chiampo, dell’Alpone, d’Illasi, e poi fu a Milano, fino al termine del conflitto. Guidò diversi agguati e battaglie contro l’esercito nazifascista, azioni che causarono spesso violente ritorsioni da parte dei tedeschi nei confronti della popolazione civile locale, soprattutto nei comuni di Chiampo, Crespadoro, Arzignano e Vestenanova, dove aveva sede il suo rifugio (località ai Cracchi). Sul suo capo pendeva una condanna a morte decretata dal Comitato di liberazione di Padova a causa dei suoi numerosi omicidi, stupri e rapine (Gianfranco Stella, Compagno mitra. Saggio storico sulle atrocità partigiane, Gianfranco Stella Editore, 2018, p. 244).
Secondo quanto riferito vent’anni dopo dallo stesso Marozin, in un memoriale scritto negli anni Sessanta (Odissea Partigiana. I 19 della Pasubio, Azione Comune, 1965), fu Sandro Pertini in persona, futuro Presidente della Repubblica Italiana, a spingere per l’esecuzione. Anche per quella della Ferida.
Marozin scrisse: «La Ferida, non aveva fatto niente, veramente niente». E, in riferimento a Pertini: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”››.
Sandro Pertini si sarebbe rifiutato di leggere anche il memoriale difensivo che Valenti aveva scritto durante i giorni di prigionia, dove erano elencati i nomi dei testimoni a difesa e dei tanti partigiani aiutati, che scagionavano la coppia di attori da ogni accusa.
Giuseppe Marozin morirà prematuramente a Milano l’anno seguente la pubblicazione del suo scritto, nel 1966, all’età di cinquant’anni.
Fu il giornalista Raffaello Uboldi, autore anche della prima biografia di Pertini, Il cittadino Sandro Pertini, cui seguì poi il volume Pertini soldato che di Sandro Pertini fu collaboratore e amico, a scrivere nel suo 25 aprile. I giorni dell’odio e della libertà, che Pertini «non muoverà un dito per salvare dalla fucilazione Valenti e la Ferida, nemmeno lei, che era colpevole di nulla; anzi, si sarebbe speso a favore dell’esecuzione».
Scrive ancora Uboldi, primo biografo di Pertini: «La loro sorte è comunque segnata, li vogliono morti, sono considerati un simbolo, al di là delle colpe che vengono loro contestate senza uno straccio di prova. Vogliono morta anche lei, che un qualsiasi altro tribunale manderebbe assolta, per di più è incinta, attende un bambino, non c’è luogo al mondo dove la condanna non verrebbe sospesa. Non nella Milano di questo aprile 1945».
Luisa cadde a terra, travolta dai proiettili, con in mano una scarpetta azzurra destinata a riscaldare i piedini di quel bimbo che non avrebbe mai visto la luce. Non ebbero pietà di lei neppure dopo la morte: sul suo corpo straziato portato all’obitorio comunale si legge chiaramente, da una fotografia scattata quello stesso giorno sul cadavere, nel cartello infamante che le misero al collo: “Giustiziata perché collaboratrice del seviziatore O. Valenti”.
Le sue ginocchia sono coperte di sangue, segno di violenze inferte quando era viva. La bocca ancora aperta, tesa in un ultimo disperato grido.
Cominciò quel giorno di fine aprile, in quella via, via Poliziano, e a guerra ormai finita, l’assalto alla Famiglia.
Cominciò quel giorno l’assalto alla Vita, anche quella non ancora nata.
Perché quel 30 aprile iniziò simbolicamente un assalto che è arrivato indenne fino a noi: tra legalizzazione dell’aborto e “diritti” delle donne, con la regia sapiente dei nuovi dominatori dell’Italia – come il ricchissimo finanziatore George Soros -, fino alla propaganda gender, che l’Italia “civile” vuol far arrivare ai bambini fin dentro le scuole.
E poi il reato di opinione, anche quello, nella civile Italia liberata, se dovesse passare un “nuovo DDL Zan”. Mentre c’è chi, come Bill Gates, pensa a legittimare persino la pedofilia.
Un assalto alla famiglia che ha assunto dimensioni epocali e che ha ridotto la popolazione italiana alla crescita zero, tra disoccupazione e inadeguatezza delle retribuzioni.
Cominciò quel giorno, nuovamente, per voler qui ricordare le parole pronunciate da Giacinto de’ Sivo all’indomani della proclamazione tra mille nefandezze del Regno d’Italia, “l’arte del boia”.
Perché quei giorni di “liberazione” furono bagnati di sangue, del sangue di tanti innocenti, e di tanti civili, uccisi a guerra finita e a sangue freddo. Era cominciata la mattanza in Italia, e di stragi se ne annoverano tante, con un numero di vittime che solo Dio conosce!
Come l’eccidio di Codevigo, avvenuto tra il 28 aprile a metà giugno 1945, tramite torture e sevizie raccapriccianti, di 136 persone tra civili ed militi della Guardia Nazionale Repubblicana, da parte di ex partigiani e militari del Gruppo “Cremona”, un’unità di fanteria dell’Esercito Cobelligerante passata a fine febbraio 1945 alle dipendenze del V Corpo d’armata britannico, che aveva inquadrato i partigiani della 28ª Brigata Garibaldi comandata da Arrigo Boldrini, detto “Bulow”.
Come riporta la stessa Wikipedia:
«La Magistratura di Padova trattò la vicenda in numerosi procedimenti dal 1945 al 1950 e poi dal 1961-62 sulla base d’indagini condotte fin dall’inizio dalla polizia Alleata e dai Carabinieri. Furono giudicati anche quattro partigiani della 28ª Brigata Garibaldi, tutti e quattro furono assolti.
I Comandi della 28ª e del “Cremona” non furono mai soggetti a procedimenti penali poiché i fatti si svolsero al di fuori e contro gli ordini da loro emanati e “a loro insaputa” (anche se la strage si svolse nell’arco di un mese e mezzo, e nonostante il servizio d’ordine e di polizia della zona fosse mantenuto dal C.L.N.)».
E’ molto difficile pensare – è necessario qui rimarcarlo – che i vertici in questione fossero davvero all’oscuro di tutto.
«Sergio Bozza sostiene (Sergio Bozza, 90 Uomini in fila allineati sul mirino della ’37’, Greco & Greco, 1989) che all’eccidio, avvenuto in varie località in prossimità di Codevigo, parteciparono elementi provenienti dalle formazioni partigiane locali, elementi provenienti dalla 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, militari inquadrati nel gruppo di combattimento “Cremona”, unità dell’esercito italiano alle dipendenze dell’VIII armata Britannica, sotto il cui comando era anche la 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, comandata da Arrigo Boldrini. Nell’atto della Prefettura di Padova del 25 maggio 1945 oltre all’attribuzione certa di alcune esecuzioni a militari del “Cremona” (Corinna Doardo, maestra, Bubola Mario o Ludovico) si comunicò che la Polizia Alleata aveva deciso di disarmare i militari del “Cremona” presenti a Codevigo. Il territorio era stato occupato dalla 28ª Garibaldi, da varie formazioni partigiane venete e dai reparti del “Cremona” e l’azione di polizia e d’ordine pubblico era svolta dal CLN locale.
Si tratta di uno degli episodi più gravi tra quelli avvenuti nell’Italia nordorientale nei giorni a cavallo della resa incondizionata in Italia delle forze tedesche e fasciste repubblicane, effettiva a partire dal 3 maggio 1945. Nella sola zona di Treviso, dopo la fine della guerra, furono almeno 630 le esecuzioni ad opera dei partigiani nei confronti dei fascisti arresi ed altre 391 nella zona di Udine».
Un’altra grande strage, tra le tante che avvennero, occorre ancora ricordare.
Riporto ancora Wikipedia, per una visione più obiettiva possibile:
«La strage della cartiera di Mignagola fu perpetrata da elementi partigiani delle Brigate Garibaldi tra il 27 aprile e i primi giorni del maggio 1945, nella frazione di Mignagola, comune di Carbonera (Treviso) ai danni di numerosi militari della Repubblica Sociale Italiana e di civili fascisti o presunti tali rastrellati nella zona. I corpi rinvenuti occultati nei dintorni della cartiera di Mignagola furono 83, senza tener conto di quelli uccisi altrove o gettati nel fiume Sile».
Le vittime furono infatti molto maggiori di quelle contate. Secondo la testimonianza di un sopravvissuto, un maresciallo della Guardia Nazionale Repubblicana, ci furono 2000 fascisti internati, di cui ben 900 trucidati (Tribunale Penale di Treviso, fasc. proc. 487/45 Deposizione del maresciallo Carlo Pampararo al giudice istruttore Aldo Loasses il 24 marzo 1949).
«Un gruppo di partigiani delle Brigate Garibaldi, negli ultimi giorni di guerra, predispose alla “Cartiera Burgo” di Mignagola di Carbonera (Treviso) un centro di detenzione improvvisato dove furono incarcerate e spesso uccise numerose persone, molte delle quali civili; alcune di esse furono torturate in modo efferato, e un centinaio furono uccise. Secondo alcuni autori e testimoni, non tutti i corpi sarebbero stati ritrovati, perché occultati, sotterrati in luoghi nascosti, bruciati nei forni della cartiera o sciolti nell’acido, gettati nei fiumi, in particolare nel Sile […].
Le maggiori efferatezze avvennero all’interno della cartiera, dove il comando era affidato a Gino Simionato, detto “Falco”. I responsabili dell’eccidio sarebbero stati appartenenti a due brigate partigiane Garibaldi. Il comando fu inizialmente posto il 26 aprile 1945 a villa Dal Vesco, i cui tre proprietari erano stati assassinati in febbraio. Vennero creati dei posti di blocco nella strade […].
Il giorno 29 aprile, domenica, il sacerdote don Giovanni Piliego si recò alla cartiera per confessare i prigionieri. Ma il giorno dopo apprese che vari prigionieri visitati il giorno prima erano stati fucilati. Il prete andò il giorno stesso dal vescovo di Treviso, informandolo di quel che aveva visto e chiedendogli di intervenire.
Lo stesso giorno 30 una jeep americana con tre militari arrivò alla cartiera ordinando la cessazione delle attività. In seguito all’intimazione degli americani, la situazione si modificò alquanto, e il giorno 1º maggio il comando della prima brigata fu spostato all’asilo parrocchiale di Carbonera. Tuttavia gli arresti le torture e le uccisioni sarebbero continuati ancora nei locali della cartiera Burgo. Nei giorni successivi furono uccisi: Galli Ilio (4 maggio), Linari Umberto (1º maggio), Menegaldo Angelo (2), Scarano Rocco (3),Spinelli Enzo (3), Bellio Giacomo Arturo (7), Zamboni Luigi (5), Testa Mario (4), Vocialta Guido (3), Sartori Giovanni B. (8), Mollica Giuseppe e Monaco Nicola (primi di maggio), Morani Benito (8), Pianca Emilio (primi di maggio), Polesel Antonio (3). Il sottotenente Lorenzi Luigi della Guardia Nazionale Repubblicana fu ucciso l’8 maggio. Il milite diciottenne della Guardia Nazionale Repubblicana Tullio Fontebasso fu ucciso il 3 maggio nella cartiera Burgo dopo un processo sommario.
L’atteggiamento dei partigiani di “Falco” lascia intendere una supposta garanzia di impunità che il partigiano Romeo Marangon “Andrea” arrivò a definire come una sorta di Carta bianca della durata di cinque giorni».
Un nome, fra i tanti trucidati, è qui da ricordare: è quello del sottotenente Luigi Lorenzi della Guardia Nazionale Repubblicana assassinato l’otto maggio.
Giano Accame nel suo La morte dei fascisti, Mursia, 2010, fra le pagine 182-183, ha riportato il racconto di come quel giovane tenente morì per mano di questi partigiani.
Morì come un martire della Chiesa Cattolica.
Il sottotenente Luigi Lorenzi
Luigi, detto Gino, era originario della provincia di Bergamo. Fu colpevole di aver combattuto fino all’ultimo, legato ai valori di Patria e famiglia e fervente cristiano.
Il 28 aprile 1945, a Oderzo in provincia di Treviso, alla presenza del parroco Abate Domenico Visentin i reparti della Repubblica Sociale presenti in zona concordarono il cessate il fuoco e la deposizione delle armi con il C.L.N. che concesse il relativo lasciapassare per il ritorno a casa. Tra questi vi era anche il sottotenente Gino Lorenzi che si mise in cammino verso la sua città natale in compagnia dei suoi uomini, tutti disarmati. Nei pressi del Ponte di Piave, una pattuglia di partigiani della Garibaldi, che rispondeva ai comandi del famigerato Falco, li catturò in palese violazione dell’accordo.
Il sottotenente Lorenzi, quando fu decisa la sua esecuzione, portava al collo un’immaginetta sacra con un’effige religiosa e così i partigiani gli proposero l’abiura della fede in alternativa alla crocifissione. Ma il giovane ufficiale del reparto “M” d’assalto “Romagna”, senza mostrare paura, né implorare clemenza, pronunciò fra gli ascoltatori sbalorditi una frase degna di un antico martire cristiano:
“Muoio come Nostro Signore nella croce. La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano.”
Secondo alcuni testimoni, poi allargò le sue braccia offrendosi spontaneamente al sacrificio. I partigiani avevano costruito una rozza croce con due tronchi di legno su cui lo trafissero senza pietà, con grossi chiodi alle mani e alle caviglie. Venne poi frustato e abbandonato tra atroci sofferenze fino a essere divorato dalle volpi.
Gino, a soli 20 anni, muore: è l’8 Maggio 1945.
La tomba del sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana Luigi Lorenzi
La sua crocifissione non fu purtroppo un episodio isolato, ma solo uno di una lunga e sanguinosa serie di episodi simili. Le scene della Via Crucis rividero inchiodati a rozze assi molti altri “perdenti” fra cui il Capitano della G.N.R Mario Corticelli crocifisso su un tavolo d’osteria a Stellaneto (SV) e il S. Ten. Walter Tavoni crocifisso sulla porta di un cascinale.
Contro gli autori della strage fu istruito un processo fin dall’estate del 1945, sollecitato dai familiari delle vittime. La Legione territoriale dei Carabinieri di Padova, stazione di Treviso, inoltrò un rapporto dettagliato al Tribunale civile e Penale di Treviso, in cui venivano indicati i luoghi in cui presumibilmente, secondo le testimonianze raccolte, erano stati occultati i corpi di numerosi fascisti.
Le indagini risultarono difficoltose fin dal principio: le molte persone che pure avevano visto, non vollero testimoniare, perché sapevano che i colpevoli erano ancora in giro. Avevano il terrore delle rappresaglie, come fu riportato da un rapporto dei Carabinieri: “Nessuno vuole parlare, […] tutti sono terrorizzati, perché i colpevoli sono in circolazione, […] coloro che potrebbero dare preziose notizie, vivono ancora sotto l’incubo della rappresaglia”.
Il processo ebbe conclusione il 24 giugno 1954 con l’assoluzione in istruttoria di tutti gli imputati.
Dopo aver appurato i gravissimi crimini commessi e i loro autori, si ritenne tuttavia corretto “non doversi procedere” poiché gli omicidi avvennero durante la guerra di liberazione e rientravano quindi nell’Amnistia Togliatti.
Luisa Ferida non fu l’unica donna a cadere sotto il fuoco di gruppi partigiani.
Fu enorme il numero di vittime tra le donne, molte delle quali appartenevano alle Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana. Un articolo della giornalista e storica Ercolina Milanesi: “Le Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana. Una storia di abnegazione, fedeltà ed eroismo”, racconta che «secondo l’Associazione culturale Servizio Ausiliario Femminile, il numero delle Ausiliarie cadute sia in conseguenza di vicende belliche che uccise a guerra finita dovrebbe avvicinarsi alle duemila unità. La cifra esatta non è nota perché molte di loro furono date come disperse o uccise e sepolte in fosse comuni o, comunque, sparite nel nulla».
Molte di esse furono ferocemente percosse e violentate numerose volte, come Marcella Batacchi e Jolanda Spitz, fiorentine ausiliarie della R.S.I. di appena 17 anni, per poi essere finite sotto le scariche dei mitra dei partigiani, sempre a guerra ormai finita. Si comportarono bene fino alla fine, difendendosi strenuamente e morendo con dignità e onore.
Un caso emblematico fu l’assassinio di un’altra ex ausiliaria, Rosa Amodio, 23 anni, avvenuto nel luglio del 1947, dopo oltre due anni che il conflitto mondiale era terminato.
Sembra proprio che si trattò – in ultima analisi – di un’operazione di “pulizia politica” che fu condotta a guerra finita con lucida freddezza e predeterminazione, usando modalità molto simili agli eccidi condotti allo scopo di pulizia etnica.
Giuseppina Ghersi, classe 1931, in una fotografia scattata quando frequentò le scuole elementari
Giuseppina Ghersi era ancora una bambina, all’età di 13 anni, quando fu trucidata il 30 aprile 1945 a Savona con l’accusa inverosimile e assurda di essere una “spia dei nazifascisti”. Giuseppina non aveva ancora l’età della povera Anna Frank: ma per lei non ci fu giustizia, né ricordi, né memoriali; anzi, ancora oggi in certi ambienti di sinistra, negazionisti (perché i veri negazionisti sono loro e non coloro che vengono convenientemente etichettati come tali), si nega persino che il fatto sia realmente accaduto.
Ricominciò in quei giorni di tarda primavera, in Italia, “l’arte del boia”.
Cominciò in quei giorni la nuova egemonia dei Rothschild.